“Fiori sopra l’inferno”, il thriller psicologico di Ilaria Tuti e un grande personaggio: Teresa Battaglia

Redazione Il Libraio | 07.01.2018

Alla Fiera del Libro di Francoforte è stata contesa da molti editori. Nuova voce direttamente dalle montagne friulane, Ilaria Tuti tiene i lettori col fiato sospeso nel suo libro d'esordio, il thriller psicologico "Fiori sopra l'inferno", e sarà pubblicata in Francia, Spagna, Germania. E intanto in Inghilterra sono stati acquistati i diritti mondiali per le traduzioni in lingua inglese... - Su ilLibraio.it due capitoli del romanzo


Parliamo di uno degli esordi più attesi di inizio anno. Il libro in questione, infatti, è stato protagonista all’ultima Fiera del Libro di FrancoforteFiori sopra l’inferno (Longanesi) è un doppio esordio al femminile: l’autrice, Ilaria Tuti, friulana, che ha lavorato come illustratrice per una casa editrice e ha vinto diversi premi letterari, porta nel panorama del thriller italiano una protagonista fuori dagli schemi, il commissario Teresa Battaglia.

Il romanzo sarà pubblicato in Francia, Spagna, Germania. E in Inghilterra sono stati acquistati i diritti mondiali per le traduzioni in lingua inglese…

La trama porta il lettore nella tranquillità dell’immaginario Travenì, piccolo paesino delle Dolomiti friulane, viene turbata da una serie di omicidi, e gli abitanti sono sconvolti dall’aggressività del misterioso colpevole e dai pericoli che la foresta circostante nasconde. Le indagini vengono affidate a Teresa Battaglia, commissario sessantenne, personaggio emozionante che brulica di umanità. Profiler da sempre, eroina empatica ed emozionante, sotto un atteggiamento riservato e quasi ostile nasconde una fragilità fisica che rischia di farle perdere la sua arma più importante: la lucidità. E una volta di fronte alla follia omicida, non potrà che faticare per trovare un equilibrio e comprendere la psicologia del killer, e salvare l’ultima vittima.

L’autrice si fa aiutare dalle descrizioni dei suoi posti cari, Gemona del Friuli e in generale le montagne silenziose che la circondano, e le usa per far entrare il lettore nel ritmo incalzante della narrazione.

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Per gentile concessione dell’editore, su ilLibraio.it pubblichiamo due capitoli:

CAPITOLO 5

Qualcosa aveva spaventato gli adulti. Mathias lo capiva dagli sguardi che sua madre gli rivolgeva mentre parlava con la maestra e altre donne: erano come uno strattone al guinzaglio della sua attenzione, un modo per tenerselo accanto anche da lontano. Stringeva tra le braccia suo fratello Markus, di pochi mesi. Anche se si era addormentato da un po’, non lo aveva adagiato nella carrozzina. L’aula magna della scuola era percorsa da bisbigli nervosi. Le luci dei proiettori illuminavano i costumi colorati abbandonati sul palco. Le prove della recita natalizia erano state interrotte poco prima da due uomini che Mathias non aveva mai visto in paese. Avevano parlato con l’insegnante, poi erano andati dalla madre di Diego e, dopo una breve conversazione, lei li aveva seguiti come uno zombie, pallida e rigida. Solo il richiamo della madre di Mathias le aveva ricordato la presenza del figlio. Era tornata indietro per dirgli di restare lì e fare il bravo, che a lui ci avrebbe pensato la maestra e poi sarebbe arrivata la nonna. Le tremava la voce.
Mathias guardò Diego. Se ne stava sprofondato in una seggiola della platea, lo sguardo fisso sulla fila di finestre alte, a guardare il cielo nero. La notte arrivava con sempre più anticipo e sembrava contagiare con il buio anche le persone. Travenì non era più il paese che Mathias amava. Nelle ultime ore, era agitato da sospetti che scendevano sugli abitanti come la neve. Da quando il padre di Diego era scomparso, la paura aveva avvelenato l’aria.

Si avvicinò all’amico. Appena sfiorato dal cono di luce proveniente dal palco, il suo viso era una piccola luna triste, e forse un po’ rabbiosa. Mathias avrebbe voluto dire qualcosa, ma sapeva che le parole non avrebbero avuto alcun effetto su di lui. Il padre di Diego era morto. Nessuno aveva ancora pronunciato quelle parole, ma lo sapevano entrambi, come si sa che uno schiaffo sta per arrivare, come si sente la febbre salire quando ancora la fronte è fresca. Mathias strinse tra le mani il berretto, ne fece una palla e gliela lanciò. La mano di Diego scattò fulminea e lo afferrò senza che gli occhi lasciassero il buio che fissavano. A Mathias sfuggì il lampo di un sorriso. Diego era ancora lì con lui, ma allo stesso tempo si trovava immerso in una palude di confusione. Era il suo migliore amico e il più grande rivale. In quel momento, pero, avrebbe voluto dirgli che non gli interessava più essere il capo del gruppo, che poteva prendere lui il suo posto, perché non gli mancava nulla per essere un leader. Invece tacque, conscio che quella non sarebbe stata una successione onorevole. Avrebbero continuato a sfidarsi, ancora e ancora, ma il legame fraterno che li univa non sarebbe mai stato messo in discussione. Mathias sentì l’impulso di farglielo sapere, ma un pensiero improvviso mutò di colpo le parole che aveva sulle labbra.

«Dov’è Oliver? » chiese.

A quel nome, Diego tornò sulla terra. Oliver aveva solo un anno meno di loro, ma per tutti era il cucciolo del branco. Si guardarono, con lo stesso pensiero urgente. Dovevano trovarlo. Dovevano proteggerlo, specialmente lì, tra quelle mura. Il corridoio che portava ai bagni degli alunni era un nastro d’ombra di cui non si intravedeva la fine. Qualcuno aveva già spento le luci, le aule erano buchi neri che emanavano odore di gesso e carta. Oliver deglutì e sentì il rumore della saliva in gola. Aveva cercato l’interruttore della luce, ma non ricordava dove fosse: non ne aveva mai avuto bisogno. Si voltò di nuovo verso il lucore flebile che lo rassicurava: dietro l’angolo, a metà di un altro corridoio, si spalancavano le porte dell’aula magna. Non sono solo, si ripeté. Tornò a fronteggiare il corridoio. Pochi metri che parevano abissi e che si era intestardito a percorrere senza chiedere aiuto.

Oliver lo sapeva: lui era da qualche parte in quel buio, o forse era in palestra, a riordinare l’attrezzatura, o nella mensa, a controllare che tutte le finestre fossero chiuse. Si muoveva sempre silenzioso, scrutava tutti con sguardo severo. Ma era solo con Oliver che mostrava davvero ciò che era: malvagio come un cattivo delle favole. Senza motivo, senza misura. Al pensiero, gli venne una fitta alla pancia. Oliver batté le palpebre più volte. Era come se l’oscurità avesse un peso e si attaccasse alle ciglia, alla pelle, ai vestiti, e volesse farlo sprofondare. Mosse un passo e ancora un altro. Immaginava di essere entrato in quella bolla di buio, adesso, più vicino al suo centro e troppo lontano dalla luce. Se una mano lo avesse afferrato all’improvviso e trascinato…

Ricacciò il pensiero da dove era venuto, ma il mal di pancia rimase a ricordarglielo. La porta dei bagni non doveva essere lontana. Ancora qualche metro e l’avrebbe sentita sotto il palmo delle mani, che teneva allungate davanti a sé, e ogni paura sarebbe stata spazzata via dalla luce. Allora Mathias e Diego sarebbero stati fieri di lui e lo avrebbero guardato come un pari. Avanzò con più convinzione, fino a sentire sotto i polpastrelli la superficie liscia della parete. Fece scorrere le dita fino alla porta, cercò a tastoni la maniglia e la abbasso. Il consueto odore di cloro e detergente gli confermò che il posto era quello giusto. Esitò, alla ricerca del coraggio per infilare una mano nel buio.

«Scemo» si disse, provando vergogna anche se non c’era nessuno ad assistere alla sua paura.

Strinse le labbra e sporse un braccio. Sentiva caldo e freddo allo stesso tempo. A tentoni raggiunse finalmente l’interruttore e il neon sul soffitto si accese crepitando. Le mattonelle azzurre luccicavano colpite dalla luce fredda. Un rubinetto allentato lasciava stillare di tanto in tanto una goccia in uno dei lavelli. Il petto di Oliver si sgonfiò del respiro trattenuto: non c’era nessuno ad attenderlo. Andò verso i servizi igienici, una fila di tre porte spalancate davanti a lui. Scelse quello nel mezzo e iniziò a slacciarsi i calzoni. Al primo bottone si fermò. Non era più solo. C’era qualcuno alle sue spalle. Un altro respiro si era unito al suo nel silenzio. Un fiato pesante che puzzava di aglio e tabacco.

«Ciao, stronzetto.»

Oliver si voltò piano, come se le parole pronunciate dalla voce sguaiata fossero un ordine. Stava tremando.

Davanti a lui, la sagoma imponente del suo incubo quotidiano lo fece sentire ancora più piccolo di quanto già fosse.

Abramo Viesel era il bidello nella scuola di Travenì. Era più vecchio dei suoi genitori, ma più giovane dei nonni. Aveva un corpo così largo che faceva fatica a muoversi e quando camminava dondolava da una parte all’altra come una nave in balia delle onde. Oliver, però, non lo avrebbe definito grasso. La parola che gli veniva in mente ogni volta che lo vedeva e che ne subiva le torture era «potente». Come il cattivo di un fumetto di supereroi. Tanto potente da schiacciarlo.

Gli guardò le mani: erano grandi quanto la sua testa. La immaginò prigioniera di quelle dita tozze e pelose.

«E così hai trovato il coraggio di venire fino qui da solo» gli stava dicendo. «Non è stata una buona idea.»

Oliver non rispose. Ogni parola sarebbe stata quella sbagliata, ormai lo sapeva. Il signor Viesel si divertiva a tormentarlo dal primo giorno in cui aveva messo piede nella scuola.

Solo a parole, senza mai sfiorarlo, ma Oliver sentiva che presto lo avrebbe fatto. Tornò a guardargli le mani e le vide attraversate da brevi spasmi, come se i muscoli guizzassero sotto la pelle. Gli ricordarono i pesci del fiume, quando con scatti rapidi sfioravano la superficie per cibarsi degli insetti. Sapeva che anche il signor Viesel era in cerca di cibo, quello che saziava la sua fame più segreta: la paura di Oliver. Spostò lo sguardo sull’addome gonfio dell’uomo. Occupava tutta la via d’uscita.

«Mi stanno aspettando» riuscì a dire in un soffio.

Lo stomaco del signor Viesel sussultò, mosso da una risata bassa che si spense quasi subito.

«Sei venuto a pisciare. Allora fallo» gli ordinò, senza muoversi. Una spalla bloccava la porta. Oliver chiuse forte gli occhi. Il peso che sentiva gravare sulla vescica si stava trasformando in dolore.

«Devo andare» disse. «Per favore.»

«No, tu resti. Fermo come un soldatino fino a quando non te la farai addosso.»

Oliver sentì le guance bagnarsi.

«Oh, ecco la femminuccia che viene fuori» lo prese in giro il signor Viesel.

Oliver pensò che anche Lucia era una femmina, eppure era coraggiosa e forte. Aprì gli occhi. Vedeva la sagoma dell’aguzzino tremolare tra le lacrime. L’uomo si sporse verso di lui.

«Lo sai che cosa farò se andrai a raccontare in giro qualcosa, vero?»

Oliver non rispose.

«Verrò a cercarti una di queste notti, mentre dormi, e…»

Mimò l’atto di afferrarlo. Oliver soffocò un urlo e Viesel scoppiò a ridere. Qualcosa, però, lo colpì in testa e ricadde sul pavimento.

Viesel guardò l’oggetto e Oliver seguì il suo sguardo. Era un cancellino. Aveva lasciato una striscia bianca di gesso sulla guancia dell’uomo. Il signor Viesel si voltò verso l’entrata e Oliver ne approfittò per infilarsi tra il suo fianco e la porta, spingendo con tutte le sue forze per guadagnare la libertà.

«Dove credi di andare?» lo sentì dire, ma ormai era al sicuro.

Mathias e Diego si frapponevano tra lui e l’aguzzino.

«Ecco i tuoi amichetti corsi a proteggerti» grugnì l’uomo. «Quando la smetterai di fare il cacasotto?»

«Lo lasci in pace!» disse Mathias.

«E tu che vuoi, Klavora? Tuo padre non te ne ha date abbastanza questa settimana?»

Abramo Viesel si pulì il viso dal gesso.

«E c’è anche il giovane Valent» continuò guardando Diego. Raccolse il cancellino da terra. «Il tuo vecchio, invece, ha fatto una brutta fine.»

«Taci!»

L’ordine di Mathias si spense inascoltato. Oliver lo vide afferrare Diego per un braccio e cercare di portarlo via, ma l’altro sembrava essere diventato una statua.

«Andiamocene!» li supplico.

«Ho sentito che cosa si sono detti i poliziotti nel parcheggio, prima di entrare a prendere tua madre» sussurrò Viesel, come in una confidenza. «Vuoi saperlo?»

Diego non rispose, continuando a guardarlo fisso. Oliver pensò che sembrasse ipnotizzato.

«Vuoi sapere come è morto?»

Ora tutti e tre stavano ad ascoltarlo. Abramo Viesel alzò le mani, le dita arcuate come a mimare artigli affilati, e piano le avvicinò al viso di Diego.

«Lo hanno portato nel bosco e gli hanno strappato gli occhi. Così!»

La voce della maestra che li chiamava in corridoio interruppe il racconto. Oliver si sentì strattonare da Mathias, che stava trascinando fuori anche Diego. Alle loro spalle, Abramo Viesel si lamentava con tono piagnucoloso di quanto fosse stanco di pulire i bagni dopo gli scherzi di ragazzini viziati, con i suoi problemi di salute. Oliver non si voltò a guardarlo, ma era certo che in una mano agitasse il cancellino e con l’altra si reggesse la schiena. Guardò invece Diego e non lo riconobbe. Era così pallido che sembrava morto. Proprio come suo padre.

CAPITOLO 6

Nella stanza in penombra, il proiettore riproduceva le fotografie scattate sulla scena del crimine. Erano primi piani di labbra socchiuse, cianotiche; dettagli dei vasi sanguigni che si allargavano sotto l’epidermide come il delta di un fiume. Uno sterno pallido. I crateri bui sul viso al posto degli occhi. Quelle immagini erano la materia prima del loro lavoro. Una plastilina che avrebbero plasmato fino a farla diventare un volto, quello dell’assassino, e a quel volto sarebbe stato associato un nome. Era il profilo dell’omicida – il ritratto della sua psiche – a condurre a un’identità, mai il contrario. Teresa osservava, sprofondata nella poltrona, tra il questore Ambrosini e il sostituto procuratore Gardini: due amici, anche se nel lavoro i ruoli restavano ben distinti. Alle spalle, la sua squadra. Erano tutti rientrati da poco in questura dopo ore di sopralluogo e rilevamenti, il freddo nelle ossa. Il lavoro era appena iniziato e il giorno si sarebbe fuso con la notte in un continuum. Gli occhi di Teresa bruciavano per la stanchezza, ma restavano attenti.

Ancora immagini, questa volta di una natura non addomesticata dall’uomo. Tra la vegetazione, spuntavano i cartelli e le tabelle per le misurazioni della Scientifica. Erano posizionati accanto a ogni ritrovamento: tracce ematiche, impronte, rami spezzati dalla furia di una bestia dalle fattezze umane. E poi, il pezzo forte di quel repertorio macabro: un totem fatto con gli abiti insanguinati della vittima.

Teresa sentì che il respiro del sostituto procuratore Gardini per un attimo si era fatto più pesante: era l’effetto del raccapriccio. Si era appena reso conto che quello non era un «normale» caso di omicidio. C’era psicosi, e qualcos’altro di più pericoloso, che Teresa non era ancora in grado di definire. Non avrebbero trovato le risposte in un movente comune. La mente umana non partoriva un incubo del genere per gelosia, per vendetta o per denaro. Quel feticcio aveva un significato molto più complesso. Chiedeva attenzione perché aveva molto da raccontare.

«E forse il dettaglio più inquietante» mormorò il questore.

Teresa aveva avuto la stessa impressione, tuttavia ora, guardandolo, le sembrò di intravedere qualcosa d’altro. Non riusciva ancora ad afferrarlo, era solo un riflesso evanescente sotto la superficie, che appariva a tratti e di colpo si spegneva non appena cercava di dargli un nome.

«Qualcosa non va?» le chiese il sostituto procuratore.

Non rispose subito, diede il tempo alla sensazione di prendere forma, ma attese invano. Infine scosse la testa e non disse nulla. Non voleva confondere anche gli altri con un’impressione che sembrava appesa al nulla, e cioè che, se non fosse stato per le circostanze in cui lo avevano trovato e per il sangue che lo imbrattava, l’aspetto del feticcio avrebbe fatto pensare a qualcosa d’infantile, forse addirittura giocoso.

Teresa fissava gli occhi fatti di bacche.

«Dobbiamo capire dove le ha prese l’assassino» disse. «Non ne ho viste là attorno e non credo siano un dettaglio di poco conto.»

Il sostituto procuratore annuì.

«Che cosa possono significare?» chiese.

Teresa non ne era ancora certa, ma aveva un sospetto.

«Per lui era importante che ci fossero» disse. «Se il totem rappresenta l’assassino, allora il killer sta osservando qualcosa.»

Ma cosa? La vittima mentre stava morendo o il villaggio poco distante? Durante il sopralluogo, Teresa aveva notato che da quell’angolazione il fantoccio sembrava guardare il campanile della chiesa di Travenì, e quel particolare l’aveva inquietata.

«L’assenza della bocca lo rende inespressivo» fece notare Gardini.

«In questo modo, l’assassino ha schermato le sue emozioni» gli spiegò lei. «È impossibile dire che cosa abbia provato in quel momento, se rabbia o paura, tormento o esaltazione.»

Il sostituto procuratore emise un sospiro che vibrava di tensione.

«Non ha lasciato indizi sui moti interiori che lo hanno spinto ad agire» mormorò.

«Non ha voluto lasciarli» lo corresse Teresa. «Non credo si tratti di una dimenticanza casuale.»

«Che cosa ti fa propendere per un’ipotesi del genere?»

«Il fatto che sia stato così meticoloso nella preparazione della scena. Deve averci fantasticato parecchio. Era esattamente così che dovevamo trovarla. Ricordiamoci delle trappole. È un perfezionista. »

«Quindi ci ha portati fino a un certo punto ma poi ha scelto di nasconderci i suoi pensieri.»

Teresa annuì.

«Mi chiedo se anche l’assenza del naso sia un occultamento inconscio» disse. «Un organo di percezione più sensuale della vista, intimamente legato alla libido…»

«Se così fosse, che cosa ne deduci?»

Teresa si stropicciò gli occhi. Non erano solo parole, quelle che le venivano chieste: erano spesso previsioni ardite, confessioni di sospetti che potevano tradursi in condanne in fieri. Nel peggiore dei casi, come quello, una scelta sulla direzione da prendere a un bivio.

«Qualsiasi deduzione sarebbe prematura» disse. Gardini non mollò.

«Dimmi solo quello che pensi» insistette, scandendo le parole. La gentilezza non era sparita dalla sua voce, ma stava lasciando il posto all’urgenza.

«Non voglio precludermi nessuna possibilità di indagine» gli rispose, nello stesso tono, senza guardarlo.

Il sostituto procuratore si sporse verso il suo orecchio.

«Non accadrà» le promise. «Terremo aperta ogni pista, fino a quando lo riterrai opportuno.»

«Non sono un’indovina» sibilò Teresa, attenta a non farsi sentire dal resto della platea.

«Nessuno lo ha mai pensato» intervenne il questore. «Però ci azzecchi sempre. O quasi. Ecco perché insistiamo.»

Lei sospirò. Non avrebbero mai potuto percepire il peso di ciò che le chiedevano.

«Il ritratto che intravedo è ancora rozzo» disse. «Se davvero l’occultamento dei sensi non è casuale, mi fa pensare a una personalità fortemente repressa, che vive una sessualità malata. Ma è ancora presto per dirlo» tornò a chiarire.

Le immagini successive erano particolari dell’orologio della vittima: era stato allacciato al contrario al ramo che funge va da polso, con il quadrante verso il legno. Teresa non aveva idea di che cosa significasse.

«Gli occhi della vittima?» chiese il questore in un sussurro, le dita incrociate davanti ai baffi brizzolati. Teresa le aveva viste tormentarsi per tutto il tempo.

«Non li abbiamo trovati» rispose. «Colpa degli uccelli, forse. Oppure sono un trofeo che l’assassino ha portato con sé. Hanno un forte valore simbolico. Gli occhi scoprono il mondo, lo osservano, lo misurano » spiegò gesticolando. « Guardano e desiderano: forse qualcosa che non avrebbero dovuto? Sono lo specchio dell’anima, si dice. Qualcosa di vero deve esserci, se spesso gli assassini li coprono alle vittime per non sentirsi giudicati, perché l’intento di uccidere non venga meno.»

Gardini si voltò. Teresa intuiva la sua perplessità. «Trofei? Simboli? Non stiamo parlando di un assassino seriale» disse infatti.

Teresa alzò le spalle, lo sguardo saldo sulle fotografie che continuavano a scorrere.

«C’è qualcosa di patologico in questa uccisione» osservò.

«Mi fa pensare che il movente non sia elementare.»

«La psicosi è rilevante, siamo d’accordo, ma…»

«Non è solo questo.»

«E allora cosa?»

Teresa non voleva dirlo, non ancora, ma se la componente psicotica era così forte come il tipo di aggressione lasciava supporre, allora non si spiegava il livello di organizzazione che trapelava da altri dettagli. O sei un pazzo furioso, o un calcolatore freddo e meticoloso. Delle due l’una.

«Ne sapremo di più dopo aver parlato con il medico legale» si limitò a dire. «Mi porterò dietro quello nuovo, l’ispettore.»

Il questore annuì.

«Hai intenzione di tormentarlo?» le chiese a bassa voce, con l’ombra di un sorriso, subito soffocato.

Teresa lanciò un’occhiata di traverso al nuovo arrivato. Marini era rimasto in piedi, appoggiato alla parete. Aveva tentato di darsi una ripulita agli abiti, ma sarebbe servito qualcosa di più di un po’ di acqua e sapone per restituirgli un aspetto presentabile.

«Non più di tanto» rispose, tornando a voltarsi. «Il giusto.»

(continua in libreria…)

Fonte: www.illibraio.it

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