“Schiava della libertà” di Ildefonso Falcones: la libertà si conquista combattendo, in ogni tempo

Francesca Cingoli | 15.11.2022

"Schiava della libertà", il nuovo romanzo di Ildefonso Falcones, racconta di due donne diverse, separate nel tempo, unite da un legame fortissimo, che si battono entrambe per la loro idea di giustizia


“«Che cantino, signor Narváez», disse il marchese rivolgendosi al capataz. «Mentre cantano non pensano, signor Narváez…» gli ricordò, come sempre faceva nelle visite alle piantagioni.”

È una cantilena monotona, un canto lugubre di dolore e di protesta, quello che accompagna il lavoro degli schiavi e delle schiave nei campi di canne da zucchero dell’ingenio La Merced. Ma il marchese Santadoma non ne conosce le parole e non lo può sapere. A lui basta che gli uomini e le donne che ha comprato lavorino, senza pensare, mentre a quel canto si aggiungono gli schiocchi di frusta, gli ordini urlati, i rumori dei machete.

falcones schiava della libertà

Cuba, impero spagnolo, 1856: gli schiavi continuano ad arrivare clandestinamente dall’Africa. La Spagna, unica tra i paesi occidentali, non ha ancora abolito la schiavitù nei suoi possedimenti coloniali.

Sulla spiaggia di Jibacoa sbarca un carico prezioso, 700 ragazzine. Tra loro Kaweka, una yoruba di undici anni originaria della Guinea. Sarà schiava, la schiena lacerata dalle frustate, data ad altri schiavi affinché possa procreare carne da far lavorare, cantare e non pensare. Ma Kaweka è anche una prescelta, una guaritrice, in grado di accogliere la divinità, essere posseduta dalla dea Yemayá, capricciosa e volubile. Lei pensa, alza la testa e combatte.

“«Mulatta, cazzo!» ribatteva lei quando si trattava di difendere le proprie origini, orgogliosa del colore della sua pelle.”

Nell’elegante quartiere Salamanca di Madrid, nel 2017, María Regla Blasco, soprannominata Lita, è manager nella banca dei marchesi Santadoma. Figlia della domestica Concepción, al servizio da sempre della ricca famiglia di banchieri, Lita ha avuto la possibilità di studiare, e di iniziare a fare carriera.

Poco importa che sia talentuosa, per molti è ancora la moretta, una curiosità dalla pelle caffelatte che incredibilmente siede ai tavoli delle riunioni, si occupa di affari, parla inglese, invece che servire come la madre. “«La raccomandata figlia della cameriera», sussurravano, come una sentenza inappellabile.”

Su di lei pesa l’eredità maledetta delle origini: l’ombra della lontana schiavitù filtra ogni tanto nei suoi pensieri, perché non c’è un solo cubano di colore che non sia discendente di uno schiavo.

È la lotta per la libertà a mettere in collegamento una ragazza delle piantagioni di epoca coloniale e una professionista dei giorni nostri: Schiava della libertà (Longanesi, traduzione di Pino Cacucci, Camilla Falsetti Spikermann, Claudia Marseguerra) racconta di due donne diverse, separate nel tempo, unite da un legame fortissimo, che si battono entrambe per la loro idea di giustizia.

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Capace di fare narrazione storica con un occhio attento al ruolo degli oppressi, dopo la Cattedrale del mare e Il pittore di anime, Ildefonso Falcones costruisce qui una storia per parallelismi, attraverso linee temporali che si alternano fino ad annullare le distanze e stabilire una connessione che è il centro della sua riflessione e del suo racconto: la schiavitù non è cosa di altri tempi, è realtà viva. Lita è mulatta, figlia di una mulatta, discendente da schiavi neri, vissuti poco più di cento anni prima, uniti da appena due generazioni.

E mentre viviamo in pieno Decennio internazionale per la difesa degli afrodiscendenti, programma delle Nazioni Unite che ha l’obiettivo di difendere i diritti dei discendenti degli schiavi di epoca coloniale in tutto il mondo, ci rendiamo conto di quanto ci sia ancora da fare. Il razzismo continua a vincere, e le sue radici affondano in una storia molto più recente di quanto percepiamo.

«Sono mulatta e di sicuro discendo da quegli schiavi della piantagione del marchese che tagliavano le canne da zucchero. E quello che viene venduto a questo tavolo non è altro che il frutto del loro sangue, delle loro vite! Probabilmente anche quella di qualche mio antenato che è morto sotto la frusta dei Santadoma.»

Falcones libera il tema dalla semplificazione e dagli stereotipi, sceglie di non utilizzare il dialetto bozal, la lingua degli schiavi, per non rischiare lontananza, incomprensione o peggio ancora un effetto caricatura, lavora di immediatezza, prossimità e brutalità per far vivere un contesto storico complesso e vergognoso.

La libertà si conquista combattendo, in ogni tempo: all’urlo di Viva Cuba Libre! Kaweka accetta un destino di guerra, per la libertà della sua gente, Lita scopre un legame con le sue origini più forte di quanto credeva, urgente, e ne fa uno stendardo contro le ingiustizie dei soldi insanguinati.

Falcones reclama la dignità di una civiltà intera, raccontando una lotta storica globale, che passa dalle piantagioni cubane, arriva ai giacimenti di diamanti in Africa, incrocia potere e avidità sulle spalle di un popolo mutilato, di un continente sfruttato, di una razza umiliata.

Mentre la Dichiarazione finale di Durban ha riconosciuto che il popolo africano, vittima della schiavitù, continua a soffrirne le conseguenze e si moltiplicano gli sforzi per i risarcimenti morali, giuridici ed economici agli afrodiscendenti, resta l’urgenza mai risolta della discriminazione, del razzismo, della xenofobia e dell’intolleranza ancora tenaci.

L’anelito verso la libertà è il protagonista della penna di Falcones, che mette in quest’ultimo romanzo la sua lunga esperienza nell’intrecciare trame sull’attenta documentazione della storia, ma lo fa aprendo a molteplici sfumature esoteriche che si insinuano nel racconto e lo pervadono di estasi, danze sfrenate, ritmo di tamburi, e offerte rituali. La Santeria è parte integrante delle due vicende, entrambe legate alla religione, a un senso della divinità bruciante: gli orisha si impossessano di volontà e parola, mandano in trance, scatenano chi ne è posseduto. La divinità è parte della vita, portatrice cocciuta di verità e di impegno, alleata di resistenza e di lotta: è un legame di appartenenza e di rivalsa.

Godere la magia del divino è la chiave per sentirsi parte di una realtà che unisce gli spiriti di tutti quei morti e che mobilita tanti, donne legate dal sangue come Lita e Kaweka, a passarsi il testimone, e a credere in un sacrificio nuovo, di un cammino verso la libertà, che non ammette compromessi.

Mescolando magia e realismo, in un’epopea che attraversa gli anni e i paesi, le guerre dei cannoni e quelle del capitalismo, la violenza delle frustate e quella delle discriminazioni, Schiava della libertà tesse una trama di storia, prevaricazione, ribellione e dignità che finisce per unirci tutti, perché riguarda il mondo intero.

“Lita fissò lo sguardo su quella Vergine nera con il mantello blu. Non era solo Regla, ma anche Yemayá, la dea dei mari, e si mostrò a lei. I loro spiriti si fusero e un’immensa gioia la pervase. Non c’era spazio per la paura o i dubbi. Lita ebbe l’impressione di essere nata solo per quel momento. La sua vita non aveva altro significato che essere lì, in intima comunione con quella piccola Vergine, il ritmo dei sensi scandito dall’agitazione dei mari che la dea dominava”.

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Fonte: www.illibraio.it

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