Il “rumore dell’ombra” in un thriller

Redazione Il Libraio | 16.01.2009

Incontro con D. Carrisi autore di Il suggeritore ISBN:9788830426443


Carrisi, autore di sceneggiature per il cinema e la televisione, debutta nella veste di romanziere con un thriller dal ritmo incalzante e con personaggi che si imprimono subito nella mente. Il suggeritore ha diverse anime e molti temi, a cominciare dalla lotta a distanza tra un’astuta mente criminale e una squadra speciale che riunisce i migliori talenti investigativi. Nell’ombra agisce un serial killer che rapisce giovani vittime e le fa a pezzi. Il suo modus operandi è incomprensibile e nessuno sa spiegare perché si diverta a far trovare agli inquirenti soltanto il braccio sinistro delle vittime. Abbiamo intervistato l’autore.

n

D. Scorrendo la sua biografia, mi ha colpito l’argomento della sua tesi di laurea, ovvero Luigi Chiatti, il cosiddetto “Mostro di Foligno”. È nata in quella fase l’idea per Il suggeritore?

n

R. Il caso Chiatti è stato in realtà un pretesto. Si è trattato del primo studio ufficiale sulla figura del serial killer; una figura che in Italia non esiste sul piano giuridico, ma soltanto dal punto di vista psichiatrico. Per la prima volta sono state riportate – in uno studio giuridico in Italia – determinate conoscenze sulla materia, direi sui “crimini seriali” più che sui serial killer. L’Fbi ha una banca dati enorme sull’argomento e interviene sovente per contribuire alla soluzione dei casi.

n

D. Noi ci serviamo spesso della parola “mostro”: il mostro di Foligno, di Firenze, di Milwaukee… Il criminologo del suo romanzo esorta invece i membri della squadra a non pensare al loro antagonista in questi termini. Ma se non sono mostri, chi sono i serial killer?

n

R. Sono persone normali. La parola “mostro” è largamente diffusa in Europa, mentre in America questa fase è già stata superata. Noi di “mostri” ne abbiamo avuti diversi. In realtà si è perso un po’ il senso delle parole. Prendiamo ad esempio il nome “Unabomber” di cui si sono serviti i media italiani per indicare il bombarolo del Veneto. In realtà nell’espressione coniata dagli americani “un” stava per “università”. Non si conosce più l’etimologia delle parole o se ne fa un uso esagerato. Quando a Milano nevica, leggiamo sui giornali “disastro a Milano”. Nel mio libro ho voluto creare una figura il più possibile reale. Il serial killer per eccellenza – Hannibal Lecter – è costruito come il mostro delle fiabe, un personaggio completamente inventato senza legami con la realtà.

n

D. Quindi tutti noi possiamo diventare serial killer ?

n

R. Certamente. Il vero criminale seriale agisce senza uno scopo economico o sessuale. Trae soltanto piacere dall’uccisione. È una persona normale, con una famiglia e degli amici. È sbagliato dare eccessiva rilevanza al movente sessuale; i criminali di quel tipo appartengono a un sottogenere. Uccidere diventa per loro quasi un hobby. La ripetizione del crimine può avvenire a intervalli più o meno lunghi perché l’assassino riesce a elaborare nel tempo questa soddisfazione e a riviverla come ricordo. Quando poi termina lo slancio emotivo, il criminale tende a ripetere il reato per rivivere l’esperienza. Da ciò deriva la ritualità. Il serial killer sistema le vittime in una certa maniera non per sfidare gli inquirenti, ma per ricreare le condizioni che hanno accompagnato un’esperienza piacevole.

n

D. Com’è stato il passaggio dal ruolo di sceneggiatore a quello di romanziere?

n

R. Direi abbastanza naturale, anche perché Il suggeritore non è nato come romanzo, ma come soggetto cinematografico. Non amo definirmi uno sceneggiatore, quanto piuttosto uno scrittore; lo scopo, in fondo, è sempre quello di raccontare una storia, di trasmettere emozioni. Cambia soltanto il mezzo. Come le dicevo, tutto è partito da un soggetto per il cinema; un film che in Italia non si sarebbe mai realizzato. Era dunque necessario servirsi di un mezzo diverso. È stata innanzitutto un’esperienza visionaria: la storia prima l’ho vista, poi l’ho scritta.

n

D. Quanto ai modelli, mi sembra di capire che non sia il giallo italiano il suo punto di riferimento. Trovo la sua impostazione molto “americana”.

n

R. È quello che mi rimproverano come sceneggiatore. Alcuni mi hanno detto, rifiutando i miei lavori, che sono troppo americano; come se fosse un’offesa, quando invece io l’ho sempre considerato un complimento. Mi sono formato così, con quel cinema e con quella letteratura; credo che quel tipo di cultura sia di gran lunga la più esportabile. Uno scrittore che ammiro moltissimo per il suo modo di costruire intrecci è Andrew Klavan. I suoi personaggi sono “sporchi” proprio come devono essere in storie di questo tipo.

n

D. Una delle cose più singolari del suo libro è l’assoluta indeterminatezza dei luoghi. Al lettore non viene data alcuna informazione geografica. Come mai?

n

R. Era difficile ambientarlo in Italia – una storia del genere sarebbe forse stata poco credibile – ma anche in un paese di cui non si ha una conoscenza diretta, “biografica”: non basta visitare un posto per poterne scrivere; è necessario viverci, in qualche caso nascerci. Se fossi nato in America, l’avrei ambientato lì. All’inizio mi sembrava quasi una scelta obbligata, poi, man mano che scrivevo, mi sono accorto che l’espediente mi permetteva di accrescere il senso di mistero. Bisogna lasciare spazio all’immaginazione. Non a caso, uno dei film più popolari dei nostri giorni, mi riferisco a Seven, si svolge in una città che è sì americana, ma immaginaria; una città dove piove sempre e in cui il protagonista – quando va a letto alla sera – deve azionare un metronomo per mettere ordine nel caos dilagante. Questo caos si esprime meglio in un luogo “non luogo”.

n

D. Anche i nomi dei personaggi – Goran, Mila, Klaus – contribuiscono a creare quest’alone di incertezza sui luoghi.

n

R. Sì. I miei personaggi rappresentano una società multirazziale, che è anche quella che ci attende; assegnare nomi che appartengono a culture diverse è stata una cosa voluta. Queste culture tendono poi a incontrarsi; attenzione però: i membri della squadra agiscono in gruppo, ma in realtà sono tutti separati. Il romanzo ha cinque finali diversi, uno per ciascun personaggio. La figura del detective “sic e simplicter”, secondo me, non funziona più. Ci deve essere necessariamente qualcosa di biografico. È stato parecchio divertente raccontare la biografia di ciascun personaggio e inserirla nel tessuto del racconto.

n

D. Qual è il significato del titolo?

n

R. Spiegare il titolo significherebbe anche spiegare gran parte del romanzo ed è una cosa che non posso fare. Il significato emerge soprattutto nel finale. Quel che conta non è tanto il personaggio in sé, ma quello che fa; il suggerimento è più importante del suggeritore. Una delle frasi chiave del libro è: “Dio tace, il diavolo sussurra”; è un’immagine emblematica che spiega bene il senso del titolo. Credo che la parola “suggeritore” trasmetta un’idea di “ombra sonora”. “L’ombra” sarebbe stato un titolo banale, quello che ho scelto è il rumore dell’ombra.

n

Intervista a cura di Marco Marangon

n

Fonte: www.illibraio.it

  • Commenti