Roma viene avvolta dalle tenebre a causa di un blackout e una serie di strane morti cominciano a susseguirsi. Solo Marcus, un antico cacciatore del buio, può capire la situazione, ma la perdita della memoria ostacola il suo compito... Su ilLibraio.it un capitolo da "Il maestro delle ombre", il nuovo romanzo di Donato Carrisi
Roma. Una tempesta senza precedenti si abbatte sulla città con ferocia inaudita. Quando un fulmine colpisce una delle centrali elettriche, alle autorità non resta che imporre un blackout totale di ventiquattro ore per riparare l’avaria; così le tenebre invadono la capitale. Questa la scena con cui ha inizio Il maestro delle ombre, l’ultimo thriller di Donato Carrisi.
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Sono passati cinque secoli dalla misteriosa bolla di papa Leone X secondo cui la città non avrebbe “mai mai mai” dovuto rimanere al buio. Nel caos e nel panico che segue, un’ombra più scura di ogni altra si muove silenziosa per la città lasciando una scia di morti. L’unico in grado di capire cosa sta succedendo è Marcus, un cacciatore del buio addestrato a riconoscere le anomalie sulle scene del crimine. Marcus è infatti un prete che appartiene a uno degli ordini più antichi e segreti della Chiesa: la Santa Penitenzieria Apostolica, conosciuta anche come il tribunale delle anime.
Ma il penitenziere ha perso la memoria e non ricorda nulla dei suoi ultimi giorni. Soltanto Sandra Vega, ex fotorilevatrice della Scientifica, e unica al mondo a conoscere il segreto di Marcus, può aiutarlo nella sua caccia. Sandra ha sofferto troppe perdite nella sua vita per riuscire ad affrontare nuovamente il male, ma qualcosa la costringe a essere coinvolta suo malgrado in questa indagine…
Donato Carrisi (classe 1973) è sceneggiatore per cinema e televisione, oltre che firma del Corriere della Sera e scrittore di successo. Nel 2009 pubblica con Longanesi il suo primo romanzo, Il Suggeritore. Il libro diventa un caso editoriale, raccogliendo critiche positive dalle principali testate giornalistiche e televisive nel mondo, nonché da molto scrittori come Ken Follet; in Italia, vince il Premio Bancarella 2009.
Nel 2011, pubblica Il Tribunale delle Anime, nel 2012 il breve noir La donna dei fiori di carta e 2013 l’atteso seguito del Suggeritore: L’ipotesi del male, che si aggiudica il Premio Scerbanenco. Nel 2014 esce Il cacciatore del buio, seguito del Tribunale delle anime, mentre nel 2015 è la volta di La ragazza nella nebbia. Oggi Carrisi è in libreria con il suo ultimo thriller: Il maestro delle ombre.
Per gentile concessione dell’editore, presentiamo l’incipit del libro:
L’ALBA
Il distacco dell’energia elettrica era previsto per le sette e quarantuno del mattino. Da quel momento, Roma sarebbe piombata in un nuovo Medioevo. Un’eccezionale ondata di maltempo si stava abbattendo sulla città da quasi settantadue ore. Un flagello ininterrotto di nubifragi con raffiche di vento che superavano i trenta nodi. Un fulmine aveva mandato in tilt una delle quattro centrali che garantivano la fornitura energetica. Come in un effetto domino, l’avaria si era ripercossa sulle altre tre, sottoponendole a un pericoloso sovraccarico.
Per riparare il guasto era necessario interrompere l’erogazione del servizio per ventiquattro ore.
L’annuncio del blackout era stato dato alla popolazione la sera prima, con un preavviso brevissimo. Le autorità avevano assicurato che i tecnici avrebbero lavorato alacremente per tornare alla normalità entro la scadenza promessa. Ma, a causa della mancanza di elettricità, sarebbero cessate tutte le comunicazioni. Niente più linee telefoniche, Internet, cellulari. Niente radio né tv. Un totale azzeramento tecnologico. E nel bel mezzo di un’emergenza meteo.
Alle sette e trenta, quando mancavano pochi minuti al distacco, Matilde Frai era in cucina e stava sciacquando la tazzina con cui aveva bevuto il primo caffè della giornata. La ripose su uno scaffale e recuperò la sigaretta accesa, in bilico sul marmo del lavello. Scoprì un alone giallastro lì dove l’aveva appoggiata, lo fissò per un tempo lunghissimo. Nelle cose più insignificanti dimorava una pace inaspettata.
Matilde vi si rifugiava per sfuggire ai propri pensieri. Nell’angolo ripiegato della pagina di una rivista, nel lembo di una piccola scucitura, in una goccia di condensa che scivolava sul muro. Ma la quiete non durava mai abbastanza e, quando ormai l’aveva prosciugata con lo sguardo, il suo demone tornava a ricordarle che l’angusto inferno in cui era prigioniera non l’avrebbe mai lasciata andare. Non posso morire. Non ancora, si disse. Ma lo desiderava tanto.
L’espressione di Matilde tornò a indurirsi. Si portò alle labbra la sigaretta e trasse una profonda boccata. Poi spinse la testa all’indietro e, guardando il soffitto, sputò fuori una nuvola di fumo bianco e, insieme, tutta la frustrazione. Un tempo era stata bella. Ma, come avrebbe detto sua madre, si era lasciata andare, e a soli trentasei anni era una donna irreversibilmente sola. Nessuno avrebbe potuto immaginare che una volta era stata una ragazza. Ciò che vedevano – quando riuscivano a vederla – era una vecchia ancora troppo giovane.
L’orologio sul muro segnava le sette e trentadue. Matilde sfilò una sedia da sotto il tavolo e si accomodò, tirando a sé il telecomando del televisore, un pacchetto di Camel e un posacenere di latta. Usò il mozzicone che aveva in mano per accendersi un’altra sigaretta. E guardò dritto davanti a sé.
“Dovrei…” Si interruppe. “Dovrei portarti dal barbiere a tagliarti i capelli” disse poi, tutto d’un fiato, seria. “Sì, sono troppo lunghi sui lati” e indicò anche il punto esatto allungando per un attimo il braccio. “E quella frangetta non mi piace più.” Annuì, come a voler confermare che era la cosa giusta da fare. “Sì, domani ci andiamo, dopo l’asilo”. Tacque ma non distolse lo sguardo. Fissava la porta della cucina. Al di là della soglia non c’era nessuno, ma sulla parete, accanto al profilo della cornice di legno, c’erano dei segni, all’incirca una ventina. Procedevano dal basso verso l’alto. Per ogni tacca un colore diverso e una data.
L’ultimo in cima era verde, e accanto c’era scritto: “103 cm – 22 maggio”. Matilde si riebbe improvvisamente dal torpore, come liberata da un incantesimo. Tornata alla realtà, afferrò il telecomando e lo puntò verso la tv sulla credenza.
Apparve un’avvenente bionda con un tailleur rosa cipria, ripresa a mezzobusto. Sotto di lei, in sovrimpressione, una scritta: “Misure eccezionali per la città di Roma, in vigore dalle ore 7.41 del 23 febbraio fino al termine del blackout programmato”. La speaker, con tono pacato e tranquillizzante, stava leggendo un comunicato all’indirizzo della telecamera. “Per evitare incidenti, le autorità hanno disposto il blocco totale del traffico. Non sarà possibile circolare e nemmeno allontanarsi dalla città. Vi ricordiamo che aeroporti e stazioni non sono più operativi da ieri a causa del maltempo. Perciò, si raccomanda ai cittadini di rimanere nelle proprie abitazioni. Ripeto: per la vostra incolumità e quella dei vostri cari, non provate a lasciare la città”. Matilde pensò che tanto non aveva più nessuno, né un altro posto dove andare.
“Di giorno uscite solo se necessario. In caso di bisogno, esponete un lenzuolo bianco a una finestra così che i mezzi di soccorso, che saranno di ronda senza sosta per le strade, possano raggiungervi. Vi ricordiamo che di notte sarà obbligatorio rispettare il coprifuoco che scatterà un’ora prima del tramonto. Da quel momento, saranno sospese alcune libertà individuali”.
Il tono pacato e i modi cordiali della speaker avrebbero dovuto infondere alla cosa un che di rassicurante, pensò Matilde, ma ottenevano l’effetto opposto. C’era qualcosa di grottesco e di inquietante. Come il sorriso sul volto delle hostess di un aereo che sta precipitando.
“Le forze di polizia presidieranno i quartieri e avranno ampi poteri per assicurare l’ordine pubblico e reprimere i reati: gli agenti sono autorizzati a procedere all’arresto anche sulla base di un semplice sospetto. Gli autori dei crimini commessi durante le ore di buio verranno processati per direttissima e giudicati con estrema severità. Ciononostante, le autorità vi esortano a chiudervi bene in casa e adottare precauzioni per impedire a sconosciuti e malintenzionati di accedere alle vostre abitazioni”.
A quella frase, un gelo improvviso colse Matilde Frai, che si strinse nelle spalle. La bionda annunciatrice appoggiò i fogli sul tavolo che aveva davanti e guardò dritto in camera. “Sicuri della vostra collaborazione, vi rimandiamo al prossimo bollettino che andrà in onda al termine dello stato di emergenza, fra ventiquattro ore da adesso. Fra pochi secondi, il suono delle sirene precederà l’imminente distacco dell’energia e la sospensione di tutte le comunicazioni. Subito dopo, entreranno in vigore le misure straordinarie e il blackout programmato avrà ufficialmente inizio”. La speaker non salutò gli spettatori, ma si limitò a rivolgere un altro sorriso muto all’obiettivo. Poi sullo schermo il suo volto fu sostituito dalla scritta: “Fine delle trasmissioni”. In quel preciso istante, il potente richiamo delle sirene cominciò a risuonare all’esterno.
Matilde spostò lo sguardo verso la finestra. Fuori era giorno, anche se il maltempo oscurava il cielo e sembrava buio. La plafoniera della cucina era accesa, però la luce non bastava a confortare la donna, che si mise a fissare la lampadina, aspettando che si spegnesse da un momento all’altro. Ma ancora non accadeva. La pioggia continuava incessante, e i secondi si dilatarono in un’eternità insopportabile. Matilde guardò di nuovo l’orologio a parete. Le sette e trentotto. No, non poteva farcela ad aspettare. Doveva zittire quelle maledette sirene che le perforavano il cervello. Schiacciò nel posacenere la seconda sigaretta, si alzò dal tavolo e si avvicinò a un vecchio frullatore che non usava da anni, ma che era rimasto inspiegabilmente collegato alla presa. Lo accese. Quindi fu il turno del tostapane a cui abbassò entrambe le levette, azionando anche il timer. Poi toccò alla cappa che sovrastava i fornelli. Alla lavatrice, alla lavastoviglie. Senza un’apparente ragione, spalancò anche lo sportello del frigo. Infine, la radio che teneva accanto all’acquaio, da sempre sintonizzata su una stazione di musica classica. Bach cercava disperatamente di crearsi un varco nella cacofonia di rumori, ma finiva per soccombere. Così, dopo aver messo in funzione tutti gli elettrodomestici e aver acceso ogni lampadina, Matilde Frai tornò a sedersi con l’intenzione di fumare l’ennesima sigaretta. Fissò di nuovo l’orologio a parete, aspettando che ultimasse il conto alla rovescia prima del buio e del silenzio. Mentre la lancetta rincorreva affannosamente i secondi, il telefono squillò.
Osservò l’apparecchio, impaurita. Era l’unico suono che non aveva provocato lei. Da anni non conosceva più nessuno, e nessuno si occupava di lei. Anzi, a pensarci bene, quell’aggeggio non avrebbe nemmeno dovuto essere presente in casa, nel suo nido di solitudine forzata. Nella clausura si era aperta una breccia. Gli squilli erano urla nel frastuono, ed era come se chiamassero il suo nome. Matilde aveva due possibilità: attendere che il blackout di lì a poco mettesse fine alla tortura oppure farlo lei, andando a rispondere. Nessuno mi chiama più da anni. Nessuno ha il mio numero.
Non era semplice curiosità ciò che spinse le gambe a sollevarsi dalla sedia. Era un presagio. Quando alzò il ricevitore del vetusto apparecchio digitale, la mano impiegò un po’ a portare la cornetta all’orecchio, tremando impercettibilmente. Prima ancora di poter dire qualcosa, Matilde udì brevi scariche elettriche, come un disturbo nella comunicazione. Poi, in mezzo alle scosse stridule e fastidiose, apparve una voce.
La voce di un bambino.
“Mamma…” disse, raggelandola. “Mamma! Mamma! Vieni a prendermi, mamma!” supplicò terrorizzato. Gli aveva fatto imparare a memoria il numero di casa il primo giorno d’asilo. Era sicura che fosse più facile da ricordare rispetto a quello di un cellulare. Le tornò in mente la scena: era seduto al tavolo di quella stessa cucina e aveva appena terminato la colazione – latte, biscotti e marmellata d’uva. Matilde era in ginocchio davanti a lui e gli allacciava le scarpe. Nel frattempo, suo figlio ripeteva le cifre una alla volta e lei faceva lo stesso, a fior di labbra però, per non aiutarlo troppo. Voleva essere sicura che l’avesse memorizzato bene.
L’immagine del passato svanì così come era arrivata. Matilde Frai si ritrovò proiettata di nuovo nel presente, sconvolta, ma finalmente riuscì a dire qualcosa. “Tobia… ” Si portò una mano all’altro orecchio, perché il frastuono degli elettrodomestici tutt’intorno le impediva di sentire bene. “Non mi lasciare qui! Non mi lasciare solo!” Altre scariche, disturbi nella linea. “Sono qui” disse la voce dall’altro capo del filo. “Sono…”
Per prima cosa, cessarono tutti i rumori. Le luci della cucina si spensero simultaneamente. La mannaia dell’ombra cadde sugli oggetti, improvvisamente immobili. Solo allora Matilde si rese conto che anche la cornetta era inanimata.
Il silenzio che emetteva era innaturale, come se non avesse mai prodotto alcun suono, come se ciò che aveva appena sentito fosse solo frutto della sua immaginazione – o della follia. Matilde tremava più forte adesso, e non riusciva a impedirselo. Poi sollevò ancora lo sguardo sull’orologio a parete.
Le sette e quarantuno esatte.
(continua in libreria…)
Fonte: www.illibraio.it
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