Thriller: un capitolo da “La bugia dell’orchidea”, il nuovo libro di Donato Carrisi

Redazione Il Libraio | 13.11.2025

"La bugia dell'orchidea", di cui pubblichiamo un estratto, segna il ritorno in libreria di Donato Carrisi, il maestro del thriller italiano: "Questo libro ha un segreto. Chi l’ha scritto ha un segreto. Chi lo legge avrà un segreto. E nessuno sarà più lo stesso..."


Quando parliamo di Donato Carrisi parliamo dell‘autore italiano di thriller più letto e apprezzato anche all’estero.

Dopo La casa dei silenzi, lo scrittore e sceneggiatore di Martina Franca (qui, a proposito, il nostro speciale dedicato ai suoi libri) torna per Longanesi con La bugia dell’orchidea.

Un romanzo che viene presentato così: “Immagina un’alba d’estate. Immagina l’aria immobile della campagna, l’odore dei campi, il frinire dei grilli. Immagina il buio che arretra all’invasione del giorno. Immagina ora un casale rosso, solitario in mezzo al nulla. Immagina di scorgere biciclette da bambini e giocattoli sulla ghiaia, panni stesi ad asciugare, galline e conigli, un moscone sopra un secchio. Immagina il silenzio. Un silenzio che non sembra appartenere a questo mondo. Un silenzio interrotto all’improvviso da un urlo disperato. C’era una volta la famiglia C., tre figli piccoli e due genitori amorevoli. C’era una volta la famiglia perfetta, e ora non c’è più. Cos’è accaduto dentro il casale rosso in quella calda notte d’agosto? Immagina qualcosa di terribile e crudele. Immagina che esista solo un possibile responsabile. L’unico sopravvissuto. Immagina di avere la verità proprio davanti agli occhi. Ogni dettaglio combacia, ogni indizio è allineato e c’è una sola spiegazione. Non puoi sbagliare. Hai tutte le risposte. Ma ciò che proprio non puoi immaginare è che questa non è la fine della storia. È l’inizio. Questo libro ha un segreto. Chi l’ha scritto ha un segreto. Chi lo legge avrà un segreto. E nessuno sarà più lo stesso…”.

la bugia dell'orchidea di Donato Carrisi

Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, proponiamo un estratto dal primo capitolo:

Il 23 febbraio del 2015 avevo già traslocato per la seconda volta nel giro di un anno.

La mia permanenza presso un indirizzo non durava mai a lungo, il massimo è stato sei mesi. Quando mi stancavo, imballavo le mie poche cose e mi trasferivo in un altro appartamento. A volte in un’altra città, a volte nella stessa, sempre che fosse abbastanza grande da sembrarmi diversa.

Ogni volta si ripeteva la medesima routine. La sera prima della partenza preparavo la mia roba e il mattino seguente chiamavo un taxi che mi portasse in aeroporto, in stazione o direttamente alla nuova destinazione.

Per preservare quello stile di vita dovevo rispettare poche, semplici regole. Scegliere case ammobiliate con contratti d’affitto brevi. Avere una precisa e contenuta dotazione di effetti personali per facilitare gli spostamenti. Comprare sempre e soltanto lo stretto necessario. A ogni nuovo oggetto acquistato doveva corrispondere l’uscita dalla lista di un altro equivalente, uno spazzolino da denti per uno spazzolino da denti, un maglione per un maglione e così via.

Donato Carrisi nella foto di Gianmarco Chieregato
Donato Carrisi nella foto di Gianmarco Chieregato

I miei beni erano sempre limitati alla capienza di due valigie grandi e di un grosso zaino militare verde, ovvero a tutto quello che riusciva a stare nel bagagliaio di una normale berlina adibita al trasporto pubblico.

Il 23 febbraio del 2015 avevo perso il conto da un pezzo dei traslochi che mi ero già messa alle spalle.

Avevo trentasei anni e, assieme all’indirizzo, cambiava ogni punto di riferimento perché, come è ovvio, ogni trasferimento non comportava solamente uno spostamento di cose. Ogni volta dovevo riorganizzare la minima rete di rapporti interpersonali irrinunciabili per sopravvivere. Per esempio, accordarmi per la consegna della spesa a domicilio e con la lavanderia, prendere contatti col mio nuovo tabaccaio di fiducia, scegliere il bar dove ogni pomeriggio alle sei avrei ordinato il mio solito vermouth bianco.

Niente legami duraturi. Nessun amico. Solo conoscenti da cui potermi sganciare senza alcun preavviso e senza rimorsi nel giro di ventiquattr’ore.

Ho avuto degli amanti, ma sempre con l’assoluta consapevolezza che qualsiasi coinvolgimento, emotivo e fisico, sarebbe stato a termine.

Avevo escluso la possibilità di affezionarmi a qualcuno o di essere vittima di nostalgia o rimpianti. Il costo della libertà era la solitudine e lo accettavo.

Non appartenevo a nessuno e a nessun posto. E nessuno e nessun posto mi apparteneva. Ma mi ero scelta la mia vita randagia e non l’avrei rimpiazzata con nient’altro.

D’altronde era come morire e rinascere in continuazione.

Ogni volta che ricominciavo tutto daccapo da qualche altra parte, per evitare che qualche superstite dell’esistenza precedente tornasse a cercarmi, oltre al domicilio tendevo a cambiare identità.

A ogni trasferimento, decidevo come volevo essere chiamata. Da quel momento, io diventavo quella persona anche senza indossare particolari maschere e conservando tutte le mie abitudini. La riservatezza era essenziale per proteggere l’unico essere umano che mi stesse a cuore.

Victoria Anthon, scrittrice. Me stessa.

Gli unici a conoscere il mio vero nome sono i lettori, ma non sanno che faccia abbia perché di Victoria Anthon non esistono fotografie e nemmeno interviste, nessuno dell’universo letterario l’ha mai vista o incontrata.

Ho esordito a ventisei anni, spuntando dal nulla con una storia che ha ottenuto subito enormi consensi di pubblico e di critica.

Il caso di via Beyle è stato un vero e proprio evento letterario.

In pochi mesi avevo realizzato il mio sogno di bambina. E pazienza se per raggiungere lo scopo avevo cancellato il mio passato, tagliato i ponti con la famiglia d’origine e reciso le mie radici. Il debutto clamoroso in così giovane età è coinciso con la mia ferma decisione di non apparire mai.

Ora che di anni ne ho trentasei, mi rendo conto di essere una sorta di esemplare unico nel panorama editoriale.

Non mi sono mai sottoposta all’estenuante liturgia delle presentazioni in libreria, dei firmacopie, dei festival, delle rassegne, dei premi letterari. A differenza di tanti miei colleghi, ho risparmiato a tutti l’imbarazzo dell’adorazione pubblica del mio talento.

Ho sempre sostenuto che questo fosse un grande vantaggio anche per i lettori, che non avrebbero rischiato di rimanere delusi conoscendomi. È umanamente impossibile piacere a tutti, e io non ho mai avuto problemi a riconoscere di essere alquanto complicata. Gli scrittori dovrebbero invece sembrare sovrumani, irraggiungibili, quasi eterei. Altrimenti il rischio è che certe loro mediocrità guastino la sacralità delle storie che raccontano e macchino irrimediabilmente la reputazione dei personaggi usciti dalla loro penna.

Io sono la scrittrice invisibile.

Nemmeno la mia agente letteraria ha mai saputo che faccia avessi. Ci siamo sempre sentite solo per telefono e, fin dall’inizio, lei ha liquidato la mia scelta di non apparire come una «stravaganza d’artista».

Ma la mia agente sapeva benissimo che questo inusuale stile di vita è sempre stato il segreto della mia scrittura. Come me, anche lei aveva paura che, se avessi deciso di rivelare a tutti il mio aspetto, di «umanizzarmi», si sarebbe esaurita l’originale vena creativa che negli anni mi ha portato a produrre una decina di romanzi, tutti best-seller tradotti in svariate lingue.

Fino al 23 febbraio del 2015 questo era abbastanza evidente a entrambe e ci pareva anche incontrovertibile. D’altro canto, visto che era andata bene così fin dall’inizio della mia carriera, non vedevamo ragioni per cambiare le cose.

In quella fatidica data, il mio successo come scrittrice non sembrava scalfibile e la mia determinazione a sfornare altri manoscritti non appariva in discussione.

Ma quella che sto descrivendo adesso non sono più io, è un’altra persona. Perché quel lontano giorno d’inverno è accaduto l’impensabile.

L’arrivo di una lettera che avrebbe stravolto tutto.

(continua in libreria…)

 

 

Fonte: www.illibraio.it

  • Commenti